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Arbitri delle culture

CIES Onlus

15 Febbraio 2019

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Arbitri delle culture

“Padre augusto, conosco il nome dello straniero!
Il suo nome è… Amor!”


Giacomo Puccini, Turandot

L’antropologo francese Lévi-Strauss ha usato la metafora del bricolage per spiegare come si formano le culture: esse sono, secondo lui, dei cantieri con degli operai che montano e smontano pezzi, frammenti e scarti di vari tipi per creare qualcosa di nuovo.

 

Ogni incontro con l’altro ci porta a rimettere in discussione ciò che sappiamo e, grazie alla capacità plastica e riflessiva dell’essere umano, ci reinventiamo e allo stesso tempo reinventiamo i nostri riferimenti culturali.

 

Sono sempre stata una persona di una curiosità avida che vede l’altro come risorsa, come possibilità di arricchimento, ed il lavoro come mediatore interculturale nutre perfettamente questa mia esigenza.

 

Spesso mi viene chiesto: chi è o che cosa fa un mediatore interculturale?

 

Questa domanda mi fa pensare sempre alle mie lezioni di sociologia economica all’università. Avendo all’epoca un background formativo letterario e linguistico, la parola economia era per me una “cultura” talmente lontana che il mio primo pensiero fu che non ce l’avrei mai fatta. Invece il mio professore riuscì nell’impossibile! Il suo metodo fu quello di incuriosirci, di spingerci a trovare dei rifermenti nella vita di tutti i giorni per poterci avvicinare alla materia attraverso concetti già conosciuti, ancorati alla realtà.

 

Allo stesso modo per comprendere l’altro si deve partire da ciò che è già evidente. Lo straniero è ognuno di noi.

 

Spesso essi stessi reduci dai quei “viaggi speciali” chiamati “migrazioni”, i mediatori interculturali sono un mezzo per potersi avvicinare allo straniero e allo stesso tempo smettere di essere uno straniero. Interpreti di lingue e culture, queste figure sono il ponte che incentiva le persone ad incamminarsi per incontrarsi a metà, perché l’integrazione e la conoscenza richiedono sempre la collaborazione di entrambe le parti.

 

Alexander Langer li chiama “costruttori di ponti” o “traditori della compattezza etnica”, mentre io li definisco “arbitri delle culture”. Il mediatore interculturale è un traditore, ma un traditore altruista, positivo e persuasivo, perché il suo scopo primario è spezzare le barriere mentali, culturali o spaziali e far incontrare le persone.

 

L’Italia vive un periodo di immigrazione in continuo movimento e cambiamento, che travolge e intimorisce. In un’epoca in cui il multiculturalismo caratterizza le nostre società e apporti culturali diversi convivono nello stesso spazio sociale, bisogna trasformarsi in ambasciatori della tolleranza, affiancando e indirizzando il multiculturalismo verso l’interculturalismo, verso cioè un mondo in cui persone di culture diverse non solo condividono lo stesso spazio, ma anche dove diverse religioni, diversi modi di vestirsi e di vivere interagiscono, comunicano, si influenzano e si arricchiscono a vicenda.

 

Mi piace pensare che la diversità sia una preziosa risorsa per creare mutamento, per costruire e rielaborare le identità e le conoscenze, che il bilinguismo di cui è portatrice la popolazione immigrata sia una ricchezza. Fenomeno largamente presente anche in Italia, la dilalìa, cioè l’uso di due lingue di diverso rango (una nella conversazione informale – lingua madre – e l’altra nella conversazione formale – l’italiano) fa sì che si sviluppi sempre di più il bilinguismo come dialogo tra le culture, come consapevolezza che gli altri possano vedere le cose da una prospettiva diversa ma non necessariamente inconciliabile con la propria.

 

Eppure nel mio lavoro il più delle volte le esperienze che queste persone rivelano non sono piacevoli, anzi sono talmente atroci che spesso è la loro forza a darmi forza. Il più delle volte hanno affrontato viaggi inimmaginabili o hanno subito traumi che la scienza medica non può affrontare senza l’aiuto di qualcuno che abbia i mezzi per avvicinare la medicina alla cultura.

 

Basti pensare alle ragazze rapite, vendute per qualche migliaio di euro, vittime di sfruttamento sessuale, prigioniere di persone senza scrupoli che alienano la loro volontà con violenze fisiche e verbali, con pratiche e rituali spesso incomprensibili per noi, ma reali per loro. Il lavoro con vittime di tratta di altre culture richiede competenze in grado di rimuovere le barriere culturali e linguistiche, di mitigare i malintesi ed i fraintendimenti che la comunicazione verbale e non verbale pone.

 

Ogni volta il mediatore si trova di fronte ad una sfida che richiede collaborazione e professionalità da parte di tutti i partecipanti ai colloqui.

 

La prossemica, la sinergologia, i tabù, le reazioni, gli atteggiamenti e le trasgressioni sono tutti strumenti in grado di aiutarci a capire il rapporto di queste persone con la sessualità, con il proprio corpo, con l’uomo o con la religione, il modo in cui vedono la malattia, a volte intesa come infamante e motivo di emarginazione e isolamento, il modo in cui vivono i traumi, lo stress post traumatico, le cure e nondimeno la loro capacità di fidarsi e chiedere aiuto.

Iuliana Olariu

Mediatrice interculturale del CIES Onlus

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