Era fine luglio quando ho ricevuto una chiamata dall’Ambasciata del Senegal che mi comunicava di aver lasciato i nostri recapiti a un ragazzo intenzionato a rimpatriare.
Dopo neanche un’ora suona il telefono “Sono all’inizio della strada, come arrivo?”. “Aspetta, ti vengo incontro”. Esco dall’ufficio, stando al telefono: “Sto scendendo via Merulana, vieni su e stai sul lato destro della strada”. Eccolo Ibrahima: jeans neri, maglia del Milan, ciabatte, cappellino e uno zaino troppo pesante, ma la cosa che colpisce di più è la sua giovane età.
Ci presentiamo e, insieme, arriviamo all’ufficio. “allora Ibrahima, siediti. Come stai?” “voglio tornare in Senegal”, dice senza neanche guardami. A fatica, ricostruiamo che Ibrahima ha viaggiato tutta la notte per arrivare a Roma dalla Sicilia, apposta per tornare in Senegal. La conversazione è difficile, Ibrahima è come intimorito da me ed io, con il cuore in mano, devo spiegargli che no, non partirà oggi per il Senegal e neanche domani. Il progetto che noi offriamo è scandito da procedure e ha dei tempi lunghi e incerti. Chiedo a un giovane mediatore senegalese di supportarmi nel colloquio, non per questioni linguistiche – Ibrahima parla benissimo italiano – ma per questioni di “genere”. Intuisco, infatti, che Ibrahima forse non si è mai trovato così a stretto contatto con una ragazza italiana, tanto interessata alla sua storia, che gli fa troppe domande, a cui lui non ha voglia di rispondere. Continuiamo il colloquio con il mediatore e la conversazione si fa più semplice, ma l’emergenza è subito chiara: qui a Roma Ibrahima non conosce nessuno e non ha un posto dove stare. Inizio allora a contattare diverse organizzazioni e realtà romane che si occupano di accoglienza e assistenza a senza fissa dimora. Spiego che “il ragazzo è interessato al rimpatrio volontario, sarebbe un’accoglienza temporanea…” “Mi dispiace. Non ci sono posti disponibili”. “Il ragazzo deve fare prima un colloquio valutativo”. “Sì, Serena. Possiamo accoglierlo già da stasera e domani valutiamo insieme la situazione”. Tiro un sospiro di sollievo. Durante tutte le chiamate a vuoto, non facevo altro che immaginare Ibrahima alla stazione Termini, piuttosto che al piazzale a Tiburtina, e mi ripetevo “È troppo fragile, come farà?”
Ora abbiamo un posto, un centro di accoglienza notturno. “Apriamo alle 21. Dai l’indirizzo al ragazzo”. Decido di accompagnare Ibrahima a Torre Spaccata. Insieme, usciamo dall’ufficio nel tardo pomeriggio e prendiamo la metropolitana. Ibrahima mi segue tutto il tempo, senza staccare gli occhi dallo schermo del suo cellulare. Allora, arrivati a Torre spaccata con largo anticipo, improvviso una lezione di orientamento: “Ibrahima, visto che sei così bravo con il cellulare, portami tu. Apri la mappa, questo è l’indirizzo”. Sbagliamo strada un paio di volte, ma è Ibrahima a guidarmi e finalmente sorride.
Arriviamo al centro dove c’è un grande giardino e aspettiamo. Dopo un po’ arrivano gli operatori, ci presentiamo e lascio Ibrahima, tranquilla, ma colma di domande. Quel giorno, infatti, Ibrahima non aveva formalizzato la domanda di rimpatrio volontario. A fronte della sua storia, delle sue esperienze e del suo potenziale, avevamo concordato di aspettare qualche giorno: insieme – io, lui, i miei colleghi e gli operatori del centro di accoglienza che si occupano di orientamento al lavoro – avremmo individuato la soluzione più adatta a lui.
Ibrahima era stanco e sfiduciato, mentre sua madre e i suoi fratelli minori necessitavano un sostegno, che lui non poteva garantire dall’Italia, senza un lavoro. Io, invece, vedevo nella sua storia il fallimento del mio Paese, che lasciava questo ragazzo neomaggiorenne ai margini della società, pur avendo investito nella sua accoglienza (ospitalità di in diversi centri in diverse città) e nella sua formazione (scolastica e professionale con un corso da panettiere). Insomma, io volevo cambiare il finale del lungo e faticoso percorso di questo giovane ragazzo, ma lui era deciso: “basta Italia, voglio tornare”.
Ci incontriamo di nuovo in ufficio, invio la richiesta di rimpatrio alle autorità competenti e inizia la procedura, che nel caso di Ibrahima è più veloce del solito.
Ci troviamo, così, all’organizzazione del viaggio di rimpatrio: il primo ottobre Ibrahima lascerà l’Italia. Acquistato il biglietto, accompagno Ibrahima in Ambasciata. Nell’attesa scherziamo, mi prende in giro per il mio francese stentato. Finalmente ritiriamo il suo lasciapassare, compriamo un panino e ci salutiamo. Ora, il prossimo appuntamento è per andare in aeroporto.
La mattina del 1° ottobre, Ibrahima inizia a chiamarmi presto, è impaziente: “Sono quasi a San Giovanni, dove sei?”. “Arrivo”, dico mentre esco di casa e penso che quella che ho davanti sarà una lunga giornata.
Ci incontriamo e andiamo in aeroporto, dove dopo tutte le peripezie, ci troviamo un’altra volta ad aspettare insieme. Ibrahima mi dà una cuffietta e mi fa ascoltare la nuova musica senegalese. Sorrido. Esce il gate di imbarco. “Ibrahima, guarda lo schermo: devi trovare tu la strada per il gate”. Mi guarda disorientato, si mette in cammino davanti a me e alla fine – complici anche i connazionali in partenza con lo stesso aereo – arriviamo al gate. Quando siamo davanti all’imbarco chiediamo a un ragazzo di farci una foto e poi stiamo improvvisamente in silenzio. Inizia l’imbarco. “Buona fortuna Ibra. Scrivimi!” “Grazie Serena”. Ci abbracciamo e inevitabilmente non posso che commuovermi e augurarmi che l’importante scelta di questo giovane ragazzo – una scelta, non la prima, che a me appariva troppo grande per lui – sia quella giusta.
Oggi, io e Ibrahima ci sentiamo ancora. Grazie al sussidio del progetto ha avviato una piccola attività di rivendita di accessori per cellulare. I suoi fratelli stanno bene e vanno a scuola.
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