Il ruolo del mediatore interculturale
Neutralità e terzietà vs Emotività
Perché terzietà e neutralità sono due fondamentali deontologici per il mediatore? In cosa conta e quanto vale la presenza del mediatore nel dialogo tra due soggetti di lingue e culture diverse?
Fare da tramite nella comunicazione come terzo neutrale non è cosa semplice, tutt’altro. Forse è uno degli elementi più difficili per il mediatore, in particolar modo se è immigrato, perché comprende appieno, avendolo vissuto sulla propria pelle, cosa significa il percorso migratorio: lasciare il proprio paese, fare un viaggio che lascia una traccia indelebile sulla propria persona, ferite visibili e invisibili sulle relazioni e non ultimo sulla propria identità.
Ma terzietà e neutralità sono elementi centrali nel processo di mediazione oltre alla “empatia”, anch’esso aspetto deontologicamente fondamentale e imprescindibile. L’empatia verso il soggetto immigrato si sostanzia non solo nella comprensione reale, viva, del “contesto” socio-culturale di provenienza di molti immigrati, ma anche nella comprensione di cosa ha significato quel viaggio e quel percorso migratorio.
Uno dei processi più importanti per un mediatore straniero o di origine straniera – e in parte anche delle seconde generazioni, perché hanno memoria tramite i genitori – è quello di riuscire a “far decantare” tutto quel vissuto.
Perché se da una parte questo vissuto è un valore aggiunto rispetto ad un mediatore autoctono o che non ha esperienza migratoria, dall’altra può diventare anche una trappola emotiva. Nel momento in cui percepisco esperienze simili alla mia, l’emotività può prendere il sopravvento.
Opinioni personali
Perché non è lui il soggetto chiamato a comunicare. Non è lui, nell’ambiente in cui interviene, il soggetto portatore di istanze e bisogni che riguardano la propria vita: un’audizione per la richiesta di protezione internazionale o una pratica per il permesso di soggiorno, l’assistenza sanitaria o circostanze che riguardano la vita dei figli.
Allo stesso tempo, non è il mediatore la persona titolata a dare risposte, a far rispettare le regole o a mettere in evidenza i limiti del sistema pubblico istituzionale. Questa facoltà spetta sempre all’operatore pubblico.
La valutazione degli elementi – positivi e negativi -, che emergono dal confronto tra le parti, spetta sempre e comunque agli operatori pubblici e agli utenti stranieri. E le parti per cui sta mediando possono anche assumere comportamenti non coerenti, commettere errori, decidere di rinunciare, o prendere decisioni “altre”.
Il mediatore non può e non deve sostituirsi alle scelte delle parti, perché in questo modo limiterebbe la loro autonomia di scelta. Questo sottile ma importantissimo principio è fondamentale per una buona mediazione: quella in cui la piena comprensione reciproca costituisce la base che permette a ciascuna delle parti di decidere in piena libertà e autonomia.
Il mediatore interculturale non è un semplice interprete
C’è un punto essenziale e tecnico che distingue la mediazione dall’interpretariato: nell’interpretariato si è obbligati a tradurre fedelmente e in maniera letterale tutto ciò che viene detto dalle parti, parola per parola, senza omettere né aggiungere nulla. In caso di fraintendimento culturale, non è compito dell’interprete tradurlo (a meno che non si tratti di un interprete cosiddetto “sociale” o di comunità, ad esempio).
Un mediatore interculturale, invece, non è tenuto a osservare strettamente questo obbligo: il suo obiettivo è quello di tradurre e riportare quanto detto in modo coerente al discorso e ai concetti espressi dalle parti, mantenendo, fin dove possibile, tutti gli elementi utilizzati nel discorso ma soprattutto tenendo a mente il contesto socio-culturale da cui le due parti provengono.
Il suo obiettivo è far capire cosa gli interlocutori stanno intendendo secondo il loro punto di vista, che spesso non è oggettivo ma culturalmente determinato: da valori sociali, culturali, familiari, relazionali, religiosi, ma anche dal contesto istituzionale e amministrativo da cui provengono.
Il mediatore riformula secondo una visione del mondo che deve essere pienamente comprensibile per gli interlocutori. Tant’è che il mediatore, nello svolgimento del servizio, ha la facoltà di introdurre, se lo ritiene necessario, degli elementi di contesto che possono spiegare e far capire, a una parte e all’altra, perché vengono espressi certi concetti o perché esistono certi desideri oppure certi bisogni. È qui che il mediatore “produce conoscenza”, cioè mette in campo il suo sapere per favorire la comprensione reciproca tra le parti.
Questa velocità, questa immediatezza, questa capacità, presuppongono competenze sia personali che professionali molto elevate. Il mediatore è empaticamente vicino alle parti e, grazie alla sua capacità di mettersi nei panni dell’altro, diviene il tramite attraverso cui le persone possono esprimersi sentendosi libere di scegliere. Il mediatore non è solo costruttore di relazioni, ma è anche e soprattutto promotore di autonomia delle parti.
Mediatori e operatori: autoctoni e migranti
Mediatori:
Il fabbisogno linguistico dei servizi pubblici dove il mediatore è richiesto è relativo soprattutto a competenze in lingue rare e rarissime, piuttosto che nelle lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo, arabo…). Ciò detto, il mediatore può essere ovviamente sia straniero che autoctono: in entrambi i casi, l’aver avuto un’esperienza migratoria o l’aver vissuto negli stessi paesi d’origine degli utenti stranieri rappresenta il valore aggiunto oltre alla conoscenza di lingua e cultura delle parti per cui si sta mediando.
L’empatia verso il soggetto straniero si sostanzia infatti non solo nella comprensione reale, viva, del contesto socio-culturale di provenienza di molti immigrati, ma anche nella comprensione di cosa ha significato quel viaggio e quel percorso migratorio. L’esperienza migratoria è dunque importante, indipendentemente dalla propria provenienza.
Operatori:
In genere, l’operatore è italiano. Ad oggi in Italia infatti, sebbene il 10% circa della popolazione sia immigrata, l’apparato pubblico è costituito quasi interamente da autoctoni, italiani. Sono poche le esperienze di immigrati che divengono operatori pubblici. Certamente queste difficoltà derivano dal percorso tortuoso che caratterizza l’accesso ai diritti di cittadinanza, requisito necessario per chi vuole concorrere alle posizioni di operatore pubblico.
Inoltre, esiste un grosso problema legato al riconoscimento dei titoli di studio, percorso lungo e costoso che non tutti possono permettersi. Per partecipare ad un concorso pubblico, questi sono requisiti di base. Ci auguriamo che il nostro paese evolva presto, come tutti i paesi con esperienza migratoria di lungo corso.
Funzionari pubblici
Questo può ovviamente accadere ed effettivamente accade. Tuttavia, se un mediatore diviene un dipendente pubblico, di fatto perde il principio di terzietà.
Non è più soggetto terzo, che promuove la comunicazione, che produce conoscenza, che costruisce relazioni tra l’apparato pubblico e l’utenza straniera. Diventa semplicemente una delle due parti, nello specifico un pubblico operatore che riceve un mandato di servizio finalizzato alla sua istituzione.
Viene meno, dunque, il tratto distintivo della mediazione interculturale perché gli viene richiesto di svolgere un altro incarico, cioè quello di rappresentare l’istituzione pubblica, per il quale valgono altre regole e altri principi deontologici. Equidistanza e terzietà, in questo caso, sarebbero principi difficilmente applicabili nella pratica ed estremamente difficili da rispettare.
Indipendenza/Subalternità
Terzietà ed equidistanza non vogliono assolutamente dire sudditanza all’operatore, anzi il contrario.
L’essere un facilitatore – e non un soggetto che prende decisioni – è una qualità che viene riconosciuta e apprezzata da entrambe le parti: sia dagli operatori pubblici che dagli utenti stranieri. La dignità del lavoro di mediatore si manifesta proprio in questo difficile equilibrio: non influenzare ma spiegare, affinché le parti possano comprendersi reciprocamente e siano perciò in grado di prendere decisioni in piena consapevolezza.
Se così non fosse, il mediatore rischierebbe di essere “annullato da entrambe le parti”. L’utente straniero lo percepirebbe come un ausiliario dell’operatore pubblico: non lo riconoscerebbe più come un soggetto al di sopra delle parti e non avrebbe più fiducia in lui.
Viceversa, se prendesse le parti del migrante diventandone una sorta di portavoce, perderebbe la fiducia dell’operatore pubblico. In entrambi i casi il ruolo del mediatore si snaturerebbe e non avrebbe più senso di esistere.
Proprio per orientarsi meglio in questo contesto così delicato il Cies organizza, per i mediatori interculturali, percorsi di formazione incentrati sul codice deontologico, per far sì che i mediatori sappiano delimitare e agire nello spazio di terzietà e possano confrontarsi tra loro per analizzare le esperienze maturate sul campo.
Per questo, se avete domande, dubbi o suggerimenti, vi invitiamo a contattarci a questo indirizzo: [email protected]
Il CIES opera per la promozione della partecipazione della società civile in una dimensione di cittadinanza globale e per costruire processi di sviluppo sostenibili, basati sulla pace, sul rispetto dei diritti umani e sulla democrazia e il dialogo tra culture e religioni diverse.
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